Dunque è arrivato il Natale “del nostro scontento”. Le nuvole incombono ancora minacciose sulla nostra casa e non ci è dato sapere quando saranno finalmente inghiottite dall’Oceano.
Come d’incanto, a partire da oggi, 24 dicembre, ci trasformeremo in statuine confinate nell’immobilismo del nostro presepe casalingo. Poi, certo, potremmo organizzare pranzi e cene in videoconferenza e scambiarci doni virtuali. I nonni si commuoveranno sorridendo nostalgici ai nipotini, prigionieri dello schermo lucido dello smartphone.
Chissà cosa direbbe il vecchio Ebenezer Scrooge, e con lui la fitta schiera di tutti gli odiatori del Natale, a proposito di questa edizione del 2020 che sembra “l’ombra di sé stessa”.
La realtà questa volta ha superato davvero la fantasia e abbiamo l’impressione che qualcuno ci abbia “rubato” il Natale, come in quei film tanto di moda nel secolo scorso. Difficile assumere la posa dell’antagonista, quando il protagonista è ormai declassato al ruolo di una comparsa e l’intreccio ha perso i suoi tradizionali connotati.
Difficile anche salire sul pulpito dei fustigatori dei costumi e incarnare i Torquemada del consumismo: signore e signori, questo è un Natale in tono minore!
Il bambino deposto sulla mangiatoia stavolta è nudo per davvero. Annuncia una nuova epoca e, proprio come con un vero neonato, non sappiamo ancora tenerlo in braccio e neppure sappiamo cosa dargli da mangiare.
La misura di questo Natale torna a essere la solitudine, la stessa che ha contraddistinto la nostra quotidianità dallo scorso marzo fino all’estate. Si porta dietro il sussurro dei morti, di quelli che non ce l’hanno fatta e hanno pagato il prezzo di questa pandemia, di quelli che ancora lo pagheranno. Nel gelo della notte di Betlemme risplendono tutte le nostre insicurezze e si aggirano gli spettri delle nostre paure, prima fra tutte quella di restare soli.
Abbiamo sostituito le passeggiate all’aperto con le serie televisive, lo shopping con gli acquisti online, le chiacchierate con le videochiamate, ma l’assenza di vita vera non può essere sostituita, diventa un luogo interiore desolato senza strade per essere raggiunto. È lo sbigottimento dell’anima.
In quel luogo desolato, oltre ai nostri cari e agli abbracci, manca il tempo dedicato alla creatività e alle emozioni condivise: manca l’agorà, da sempre spazio vitale per le civiltà di tutti i tempi, e anche il prezioso palcoscenico per le arti.
Qualcuno, passando in rassegna la storia, ha detto che si tratta di una sorta di copione fisso: succede sempre così quando l’uomo crede di essere immortale o onnipotente, succede che poi sia costretto a ricredersi con amarezza. A volte le battute d’arresto nel cammino dell’autocelebrazione del genere umano hanno il volto delle guerre, altre quello delle epidemie.
L’anno che si chiude, oltre agli anziani e ai più fragili fra noi morti per Covid, si è portato via celebrità dell’arte e dello sport, come gli scrittori Luis Sepulveda e John Le Carré, i musicisti Ezio Bosso ed Ennio Morricone, gli attori Sean Connery e Gigi Proietti, o i fuoriclasse del calcio Paolo Rossi e Diego Armando Maradona. Ne sentiamo ancora più forte la mancanza in questo silenzio assordante.
Non ci resta che far tesoro di questa solitudine e ritenerla una pausa al nostro fluire esasperato, necessitato e necessitante. Nell’attesa che il Natale arrivi, non dimentichiamo che da qualche parte è nascosto il nostro “puer” interiore, anche lui in attesa della mezzanotte. Forse pensando a quel bambino nudo nella mangiatoia sarà meno sconcertante per noi l’attesa: egli porta il nome della speranza e ci insegna che la solitudine non è un posto in cui disperarsi, ma è un luogo dove immaginare un futuro migliore, creato dalle nostre mani e dalle nostre idee. Un posto, dunque, dove poter essere felici in compagnia di quella speranza.
Sarà un Natale all’insegna dell’intimità, bellissima osservazione e forse c’era bisogno di uno stop per riapprezzare le cose più semplici.
Grazie Silvia, sei sempre illuminante