Ci si può trascorrere del tempo a “sfogliare” TikTok. Non è un caso se nella stordente vacuità del suo fluire, ancor più amplificata nell’epoca del ritiro sociale e della pandemia, questo social riscuota un così gran successo di pubblico. A guardarlo con attenzione richiama l’atmosfera rumorosa della fiera medievale, popolata da saltimbanchi, imbonitori, artisti, venditori…
Ci si può imbattere in influencer, sedicenti tali e veri e propri “impostori”, come in una classica fiaba o in un grande gioco collettivo.
Vi si incontra davvero di tutto, ciascuno può trovare il proprio filone narrativo e anche il proprio personalissimo cono di luce.
TikTok e i suoi fratelli ci regalano l’illusione della visibilità, del sogno, perfino della celebrità. Che sia per illustrare una ricetta di cucina, per spiegare un trucco con cui pulire meglio l’inox, o per collaudare un outfit.
Interessante, poi, è l’effetto “galleria degli specchi”. Alcuni video rimbalzano da un profilo all’altro e vengono rielaborati, o personalizzati. Rilanciano un mood. Si trasformano in un loop. Un labirintico riproporsi in infinite variazioni de-formanti.
Nel deserto non si avverte il bisogno degli ideali, anzi questi ultimi pesano sulle spalle di chi lo attraversa. In questo eterno presente dove tutto è arido, c’è bisogno di dissetarsi e mettersi al riparo dalle allucinazioni, che puntuali invece si presentano davanti ai nostri occhi stanchi.
La prima e più grande allucinazione prende il nome di “libertà”.
Dalle pagine del Corriere della Sera, nei giorni scorsi, Paolo Benanti, un frate francescano che si occupa di etica, bioetica ed etica delle tecnologie, offre una interessante provocazione riguardo quel “sogno di libertà” che fu bandiera della beat generation e che di fatto, oggi, è approdato alla generazione dei “bit”. La ribellione al conformismo di un’epoca al tramonto sembra essersi miseramente infranta sugli scogli della realtà “aumentata” dell’universo contemporaneo. La nuova arca di Noè non è riuscita a compiere la traversata nel mare della rete e così le coppie di animali si sono disperse nel web. Le sirene della tecnologia hanno prodotto la più grande allucinazione collettiva della storia dell’umanità, portandoci a confondere l’idea di libertà con quella più banale della visibilità.
Com’è potuto accadere?
Attraverso la colonizzazione delle app abbiamo sperimentato l’esaltante sensazione di poter disporre a nostro piacimento e così abbiamo spontaneamente consegnato all’ineffabile divinità del web la nostra perenne reperibilità, la tracciabilità, la decodifica algoritmica dei nostri desideri e, soprattutto, il nostro tempo.
Soprattutto il tempo che è stato investito dal sortilegio più astuto: il miraggio social offre fuga e stordimento in una manciata di secondi. E intanto la vita passa e ci trova altrove.