Dante morì nel settembre del 1321, circa sette secoli fa. Fu la malaria a ucciderlo, qualcuno scrive che morì per la “puntura di una zanzara”, una morte banale per un uomo straordinario. Come banale è anche la motivazione che ha portato all’istituzione del DanteDì, per imitazione delle celebrazioni di un altro viaggiatore, costringendo ancora il poeta da tutti ammirato (e imitato) a un cammino “in duro calle … per l’altrui scale”.
Come non vedere in questo l’avverarsi delle profetiche parole con le quali il poeta stesso spiegava il fine della sua opera nell’Epistola a Cangrande della Scala (1316 circa): Removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis – Coloro che vivono hanno bisogno di essere rimossi dalla condizione di miseria e di essere condotti allo stato della felicità.
Dallo stato di miseria allo stato di felicità. Dall’oblio alla celebrazione mimetica.
Dante, dunque, è ancora vivo e, attraverso questa metafora, attraverso questo ennesimo episodio della commedia umana, ci dice che anche noi uomini e donne del futuro, “viventes”, continuiamo ad aver bisogno di essere “rimossi” dalla nostra “condizione di miseria e di essere condotti allo stato della felicità”. Il 25 marzo, che potrebbe coincidere con l’inizio del viaggio ultraterreno cantato nella Commedia, diventa quindi l’inizio del viaggio che consente ai suoi lettori di tutte le età, smarriti nella “selva oscura”, di ritrovare “la diritta via”.
Parlando di sé, della sua vicenda privata, come ha fatto in molti passi della Commedia, Dante, dunque, è ancora in grado di far vibrare le nostre corde e quelle dei nostri ragazzi; è pronto a traghettare anche i suoi lettori in erba attraverso le paludi dell’esistenza, conducendoli per mano a visitare le malebolge interiori, raccogliendoli nelle cadute, rimproverandoli, ma anche consolandoli e, infine, aiutandoli ad elevarsi fino allo “stato di felicità”. E non importa se a popolare l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso siano personaggi di tempi ormai remoti e se tutto avvenga all’interno di un affresco cosmologico ormai anacronistico: quel che conta è la potenza della visione, del significato ultimo dell’umana esistenza che il poeta è capace di orchestrare.
Quella visione resta intatta e purissima, pronta per essere offerta ai nostri ragazzi.
Qualche tempo fa, in una conferenza la scrittrice Paola Mastrocola ricordava che per poter essere in grado di apprezzare e comprendere Dante i nostri studenti hanno bisogno di un’adeguata formazione. La Commedia è stata scritta sette secoli fa e da allora la vita è cambiata radicalmente, soprattutto in quest’ultimo secolo; non c’è cosa che sia rimasta intatta da allora, e non soltanto nei massimi sistemi, ma anche nella esperienza quotidiana della vita.
È vero che la scuola dovrebbe “preparare” a Dante, è vero che non sempre questo avviene adeguatamente, ma è vero anche che il fascino di Dante raggiunge persino i meno preparati fra gli studenti, quelli che non hanno una grande dimestichezza con le sottigliezze della retorica e che non riescono a cogliere tutti i riferimenti storici della narrazione. Dante coinvolge con la forza della visione, soprattutto prefigurando un orizzonte al di là del deserto dell’effimero sperimentato quotidianamente.
Non ci sono effetti speciali nella Commedia, certamente non quelli a cui la Generazione Z è avvezza. Dante è “logos” allo stato puro, è artista della parola e si destreggia fra vari registri linguistici. Il viaggio che propone è pure una immersione profonda nei suoni di una “favella” selvatica, nata dalla contaminazione, “spregiata”, miscela di sonorità dissonanti. Ma quella lingua ha la forza dirompente e umana del parlato, come oggi lo slang ed il rap. La Commedia è un viaggio “sonoro”: le parole, in questo viaggio, chiedono di essere ascoltate, ma soprattutto svelate.
Ma oltre l’umano e il trascendente, il logos dantesco lambisce anche l’inconscio. Raggiunge il cuore dei giovani, prigionieri delle proprie “selve oscure” e ostaggi delle proprie “fiere”. Offre loro la possibilità di misurare se stessi con il senso del tragico e del sublime. Propone una catarsi, quindi, da cui uscire “con lena affannata, fuor dal pelago a la riva”. Insegna che “il pelago” è un bagno di umiltà e che quest’ultima, assieme alla conoscenza, rappresenta l’unico antidoto alla fragilità del vivere. L’eterna parabola, in cui l’uomo è alla ricerca della propria identità: “Fatti non foste a viver come bruti…”, tuona ancora Dante dalle sue terzine, accendendo l’incerto lume della speranza nell’universo fosco dei “viventes”.
Immagine di Federico Ruggeri per la mostra “dalle FOLLIE DELL’IMPERATORE a CAPITAN LUPO DI MARE”, Aprilia, 2019