Le Virgole, un appuntamento estemporaneo fra chi ama scrivere e chi ama leggere.
Eusebius Hofman era rimasto ad osservarla finché anche l’ultimo lembo della veste di lei non era svanito oltre la porta. Si sforzò di trattenere negli occhi l’immagine di Alice, come a volerle rivolgere le domande rimaste mute. Ne inspirò un’ultima volta la fragranza e ne fu certo: era libera. Libera dal nero incantesimo che da dieci anni, un mese, una settimana e un giorno la possedeva e la legava a lui. Finalmente libera.
E lui? Poteva forse dirsi libero? Ne avvertiva la necessità lacerante, ma lo era? Sentiva altresì il bisogno di lasciar andare le parole. Eppure non ne era stato capace. Quelle parole, confinate da troppo tempo chissà dove, si accalcavano nella sua mente. Recluse e silenti sino ad ieri, premevano senza vergogna, scalciavano, urlavano a perdifiato di voler uscire. Nemmeno stavolta, però, era riuscito a reciderne i vincoli. Non con Alice, non in quell’occasione. L’attesa di una vita si sarebbe consumata nello spazio angusto e triste di un addio. Estinta in un commiato per qualcosa che non aveva mai conosciuto un inizio.
Il tonfo della porta gli apparve assordante. Una deflagrazione potente che lo fece sussultare, scuotendolo dall’incalzare dei pensieri. Le tempie pulsavano. Era accaldato, ma nelle ossa avvertiva la gelida presa della paura. Lui, aduso ad avere costantemente tutto sotto controllo. Lui, sempre misurato e composto. Lui, l’editore inappuntabile, era smarrito. Si rivestì in tutta fretta, cercando di ignorare quella sensazione sgradevole. Aveva un appuntamento al quale non voleva mancare.
Eusebius Hofman uscì dall’hotel Schwarzkopf, e si precipitò nelle strade di Magonza. Era in ritardo. Accelerando il passo imboccò infine la Ludwigstrasse, come ogni anno, per presenziare al battesimo degli stampatori. Giunse appena in tempo. La cerimonia era al culmine. Osservò gli uomini scendere nella vasca ed immergersi nei flutti docili del Reno. Fu allora che il desiderio lo assalì, cogliendolo alla sprovvista. Un desiderio inatteso, subdolo, assurdo. Quell’acqua lurida, contaminata dalla sostanza di tutte quelle vite, lo chiamava a sé. In verità non era mai riuscito ad assistere al rito in maniera distaccata. Il ribrezzo per quel fluido torbido e impuro alla fine lo induceva sempre a distogliere lo sguardo e abbandonare anzitempo la celebrazione. Stavolta no, voleva prendervi parte, desiderava contaminarsi, mescolarsi, condividere e accogliere. La testa prese a vorticare, un calore improvviso salì lungo il corpo. Eusebius sentì le gambe cedere. Si appoggiò con tutta la forza che riuscì a trovare al bastone da passeggio. Tentando affannosamente di sorreggersi si aggrappò alla spalla dell’uomo paffuto che gli stava accanto. Riuscì a rimanere in piedi, seppure a fatica. Si scusò col malcapitato e decise che per quel giorno ne aveva avuto abbastanza. Si avviò verso casa, un passo incerto dopo l’altro.
Al tramonto Eusebius era stanco. Desiderava solo dormire. Prima però, come tutte le sere, lo attendeva la preghiera. Era un rito che compiva da sempre. Da quando la mamma aveva preteso che il bambino imparasse a memoria le orazioni da recitare prima di coricarsi e dopo il risveglio, al mattino. I gesti erano ormai consuetudine. Si inginocchiò accanto al letto, chiuse gli occhi, unì le mani e vi avvicinò il viso. Quindi si accinse ad iniziare le giaculatorie. Tuttavia, per quanto si sforzasse, le parole non gli ubbidivano. Dalla bocca non fuoriusciva alcun suono. Non ricordava nemmeno più le preghiere. Non riusciva a pregare. Non poteva. Negli occhi il volto della madre, lo sguardo severo, l’assoluta intransigenza. Eusebius invece avrebbe voluto una carezza, un sorriso affettuoso.
Sentì gli occhi inumidirsi, le guance si rigarono. Le lacrime presero a scorrere, dapprima timide, poi sempre più copiose. Eusebius piangeva. Piangeva di dolore e di gioia. Tremava ed esultava. E pregava. Il pianto era la sua preghiera. Una preghiera di perdono e amore, compassione e indulgenza. Le lacrime continuarono a fluire, irrorando corpo e anima. Eusebius aveva avuto il suo battesimo. Finalmente le parole poterono levarsi libere.
Quella mattina, alle 4.30, l’editore si svegliò ritemprato. Prese una delle copie del libro che aveva ricevuto il giorno precedente, ne strappò con cura le pagine e le sfregò avidamente sul corpo. Una volta terminato il consueto rituale scoprì con stupore un bisogno nuovo ed impellente. Avvertiva il desiderio di leggere. Doveva farlo. E subito! Aveva una biblioteca molto fornita, molti di quei libri era stato proprio lui a stamparli, tuttavia non intendeva leggerne uno a caso. Decise che si sarebbe rivolto ad un libraio e avrebbe chiesto consiglio.
Dopo un’attesa che gli parve interminabile, alle 8.30 in punto, uscì di casa. Sapeva dove recarsi. Allorquando la prima volta, per caso, il suo sguardo aveva incrociato l’insegna di quella bottega, quanto vi aveva letto lo aveva attratto ed atterrito allo stesso tempo. All’epoca aveva assecondato la paura, adesso quel nome rappresentava un richiamo ineludibile: Inchiostro. Eusebius Hofman entrò nella bottega di Johann Walbach con apprensione. Ad accrescere le sue ansie vi erano quelle vetrine a dir poco disadorne e una volta all’interno del locale l’inquietudine, per quanto possibile, crebbe. Il negozio era vuoto, scaffali e ripiani erano nudi, ovunque guardasse non scorgeva nemmeno l’ombra di un libro.
Johann Walbach fu colto alla sprovvista, non attendeva certo avventori, i suoi clienti sapevano bene che la libreria stava chiudendo. Johann era lì per mettere ordine e portar via le ultime cose. In capo a uno o due giorni la porta della sua bottega si sarebbe chiusa per sempre. Con un velo di mestizia rivolse la parola al visitatore inaspettato.
«Come posso aiutarla?»
Eusebius Hofman continuava a guardarsi intorno confuso. Non si era nemmeno accorto della presenza del libraio. La domanda lo colse impreparato.
«Ehmm, si, io … io volevo … io desideravo un consiglio per un libro», disse tutto d’un fiato.
«Mi spiace, non ci sono più libri qui, sto chiudendo la bottega. È arrivato tardi»
«Non ha davvero nemmeno un libro da darmi?»
«Come le ho appena detto la libreria non è più in attività, sono desolato»
Mentre continuava a guardarsi intorno spaesato, l’attenzione dell’editore venne attratta da una sedia.
Su di essa faceva bella mostra di sé un volume.
«E quello? Non è forse un libro?». L’editore indicò con disappunto il tomo risposto sulla sedia.
«Si, ma non è in prestito e nemmeno in vendita»
Eusebius continuava a fissare il volume, qualcosa gli appariva familiare.
«Mi consente almeno di dargli un’occhiata?». Si mosse in direzione della sedia.
Il libraio si precipitò ad afferrare il libro, portandolo al petto.
«È un ricordo personale», replicò seccato, «ne sono molto geloso»
«Voglio solo scorrerne le pagine, glielo riconsegno, può starne certo»
«Mi spiace, non si può. È un libro particolare. Può essere letto una volta sola. Lo sguardo, un unico sguardo, è sufficiente a cancellarne le parole. Ed io l’ho già letto»
L’editore trasalì e le mille illazioni si fecero certezza quando riconobbe la copertina, riuscendo a leggerne il titolo: Inchiostro. Il libro che aveva ricevuto il giorno precedente, di cui quella mattina aveva strappato le pagine per sfregarsele avidamente sul corpo.
Johann Walbach si sentì intimorito dallo sguardo spiritato del suo interlocutore e decise di chiarire la ragione del proprio rifiuto.
«Ho sacrificato i miei volumi per riscattare la cosa a cui tengo di più al mondo. E grazie a questo libro ho riacquistato l’amore di mia moglie Alice. Mi dispiace non posso darglielo»
Eusebius Hofman in un istante si riebbe dallo stupore e capì. Comprese di avere un debito, un debito che andava onorato quanto prima. Salutò il libraio, scusandosi per l’inopportuna insistenza. Uscì dalla libreria e si diresse celermente verso la bottega di Herr Diermissen. Qui si accordò con lo stampatore affinché, ogni giorno, un nuovo volume fresco di stampa venisse recapitato alla libreria di Johann Walbach. Poi chiese che un fattorino con un carretto fosse disponibile presso la propria abitazione da lì a tre ore.
Erano all’incirca le 10, doveva sbrigarsi. Si precipitò a casa ed inizio a svuotare freneticamente la propria biblioteca. Tutti quei libri che non aveva mai nemmeno aperto sarebbero stati finalmente letti. Alle 13.00 in punto sentì bussare alla porta. Era il fattorino di Herr Diermissen. Eusebius gli indicò la catasta che aveva accumulato in tutta fretta e lo aiutò a caricare i libri sul carretto.
«Devi consegnarli alla libreria Inchiostro. Si trova in un viale perpendicolare alla Rhein Promenade, non ricordo l’indirizzo preciso, ma non avrai difficoltà a trovarla.»
«La conosco, Signore.»
«Bene. Anche se il libraio dovesse chiedertelo non rivelare chi è che manda i libri. Dì solo che l’inchiostro non si è dissolto del tutto. Nient’altro.»
«Sarà fatto, Signore.»
«Ora vai. È urgente.»
Eusebius Hofman rimase in strada ad osservare il carretto allontanarsi ad andatura sostenuta fin quando non scomparve tra le vie di Magonza. Rientrato in casa il suo sguardo corse subito agli scaffali della sua libreria, spoglia come non mai. Gli unici libri che gli erano rimasti erano quelli ricevuti dalla tipografia dei Gensfleisch due giorni prima. Ora ne era consapevole, non ne avrebbe avuto più bisogno. Era libero finalmente di lasciar fluire il suo inchiostro.
Liberamente ispirato a Inchiostro di Fernando Trias De Bes.
Giuseppe Di Pirro vive a Gaeta; dopo la laurea in Storia medievale presso l’Università di Firenze, si divide tra varie passioni: la storia, l’economia, la sociologia e, non ultima, la scrittura. Attualmente si occupa di intelligenza artificiale e delle sue ricadute sulla società e gli stili di vita.