Dalla chiarezza espositiva al controllo occulto. Un percorso di cui non siamo pienamente consapevoli.
di Marisa Jacopino
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Comunicare significa far conoscere.
Comunicare significa far conoscere. Questo fin dall’antichità, quando si faceva della comunicazione un’ars oratoria, vera e propria arte del parlare con chiarezza espositiva e abilità dialettica, rivolgendosi a una platea che fisicamente si poneva in ascolto.
Ma cosa si comunica? Innanzitutto, la propria visione del mondo, così come la si possiede nella comprensione e conoscenza d’un linguaggio, in una connessione che è, fisicamente, un collegamento elettrico di sinapsi e carica emotiva di energie.
Dunque, si può affermare che tutto ciò che non è possibile comprendere, o con cui non si riesce a entrare in contatto, non possa essere comunicato e quindi trasmesso, ossia fatto transitare da sé a qualcun altro.
Il passo successivo e indispensabile del comunicare è quello di rendersi comprensibili. L’abilità, quindi, è di saper esprimere chiaramente ciò che si ha in testa. Si consideri che nell’atto della formulazione in parole, il pensiero viene considerevolmente impoverito di informazioni, per la necessità di sintetizzare il magma che anima la mente umana.
A tutto questo si aggiunga poi il passaggio dall’emittente al destinatario, con gli ostacoli e gli steccati comunicativi messi in atto da chi riceve – per prevenzione o inconsapevolmente. Pertanto, solo una minima percentuale di quanto viene comunicato arriva all’ascoltatore, anche il più attento.
Il mondo multimediale
Compiendo un salto di millenni, oggi l’atto del comunicare ha bisogno di un collegamento teorico con il mondo. Perché non ci si riferisce più semplicemente a un contatto fisico ma anche, e soprattutto, elettronico. Gli strumenti di connessione che costituiscono il complesso mondo multimediale, ormai nella quasi totale disponibilità di ognuno, hanno accelerato in misura un tempo inimmaginabile il compiersi del processo di comunicazione.
I social network hanno inoltre stimolato, tra gli utenti, la crescita di un bisogno propriamente umano che è quello di assurgere a protagonisti della scena, spesso inseguendo modelli di ‘cultura’ in voga.
Dopo la ‘spensierata’ civiltà dei consumi – prodotta da quello che Pier Paolo Pasolini definiva il “nuovo fascismo… la prepotenza del potere” che, attraverso un sistema impositivo di bisogni finalizzati alla crescita, ha determinato un cambiamento antropologico – eccoci ora catapultati nell’era digitale, generata dal potere delle industrie mediatiche. Al pari, o forse più, del sistema precedente, quello tecnologico ci ha resi interpreti di una rivoluzione sociale di cui non siamo gli artefici ma i fruitori passivi.
Da ciò, qualcuno arriva a pensare che un’entità astratta, di cui non si conoscono le sembianze né propriamente gli intenti, stia compiendo un processo di irreggimentazione, una ladroneria o un cambiamento dell’anima, tra i più giovani soprattutto, determinando un mutamento totale del modo di comunicare, e perciò di essere.
Pur non volendo demonizzare la tecnologia, il rischio più palpabile è che un uso sconsiderato o scarsamente consapevole degli strumenti comunicativi, possa indurre a un delirio di onnipotenza, oltreché al narcisismo, fino a far sconfessare l’attendibilità di coloro che vorrebbero mettere in guardia sulla sorveglianza – questa inopinabile – esercitata dal web e dalle comunicazioni di rete in generale: se sono io a mostrarmi volontariamente sui social, che me ne importa se ‘grandi imprese’ o addirittura uno ‘Stato Mondiale di Sorveglianza’ mi stanno osservando?
Gli influencer
Peraltro, il sistema concede a taluni influenzatori di condizionare le scelte degli altri, persuadendo e vedendo poi rimarcati sul proprio profilo di influencer i like, ovvero i mi piace di migliaia o centinaia di migliaia di followers, alias seguaci. Tale capacità di attrazione distrae detti influenzatori dal fatto che possano essere essi stessi oggetti di marketing, mezzi nelle mani di incorporei controllori sorveglianti, indottrinanti.
Insomma, in una società che ha soppiantato la coscienza di classe, elevando sull’ara della nuova utopia l’illusione di un’informazione di massa omologante, possiamo ancora credere di avere il controllo della situazione?
Il pericolo che una cultura mediale totalizzante irrompa nella vita soggettiva con conseguenze anche destabilizzanti per la sfera psichica di ognuno, è tanto più forte quanto più cresce il bisogno di aderire a questa esperienza comunicativa per sentirsi parte integrante di una comunità di fruitori vincenti.
Simbolicamente insieme, praticamente isolati ma interconnessi, alla ricerca costante di un senso di sé. Così si fa del virtuale la scorciatoia per il successo, per ascendere a una popolarità anelata e percepita come a buon mercato.
Un sistema che può essere inteso come ascensore sociale, e pur permettendo di sviluppare abilità percettive e di osservazione della realtà mass-mediale, spesso distrae dall’effettivo e più arduo lavoro di formazione di se stessi. Un sistema per il quale si è disposti a sacrificare la propria privacy, termine che rimanda peraltro a un’idea di riservatezza che fa paio con anonimato, e di cui pertanto non si comprende più il diritto, ma si guarda piuttosto con orrore.
Cosa rimane allora da fare?
Innanzitutto riflettere, per mettersi al riparo dagli interessi d’un mercato tecnologico che impatta fortemente sulle interazioni sociali. Ciò per non essere costretti in un futuro prossimo, se non già fin d’ora, a disconnettersi per restare individui pensanti.
Soltanto se si crescerà di numero nella consapevolezza di tutto questo, ci si potrà affrancare, smuovendo il torpore delle coscienze, smettendo di farsi strumento di un occulto che, nel promettere libertà, sempre più controlla.