Quando raccontiamo l’Olocausto ai nostri giovani, il rischio è di confondere la “memoria” con la “celebrazione”. Ricordare le vittime, ascoltare i testimoni, ripercorrere i fatti storici e trovarsi faccia a faccia con l’orrore che li ha abitati non può essere l’effimero esercizio scolastico di una Giornata.
La memoria è altro, ambisce a trovare dimora nell’eternità del tempo. Essa ha a che fare con l’intelligenza e la comprensione: si ricorda davvero soltanto ciò che si comprende, tutto il resto tendiamo a dimenticarlo.
Nel gennaio del 1942 venne affidato al nazista Otto Adolf Eichmann il compito di coordinare i flussi dei deportati verso i campi di concentramento e di sterminio di tutta Europa. Egli fu uno dei principali esecutori materiali della “soluzione finale”. Alla fine del conflitto fu tra i nazisti che fuggirono in Sudamerica. Lo catturarono nel 1960 in Argentina, dove si nascondeva sotto falsa identità, e venne processato in Israele. Davanti al tribunale dovette rispondere di quindici capi d’accusa, tra cui crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tutti compiuti sotto il regime nazista.
Eichmann si dichiarò, per tutte e quindici le imputazioni, “non colpevole nel senso dell’atto di accusa”. Per tutta la durata del processo si difese affermando che stava semplicemente eseguendo degli ordini: “Ricevevo degli ordini e dovevo eseguirli in virtù del mio giuramento. Non potevo sottrarmi e non ho mai provato a farlo. Ma non ho mai agito secondo la mia volontà”. Fu impiccato nel 1962 in una prigione a Ramla, in Israele, così come aveva stabilito il tribunale. Eichmann non fu l’unico a difendersi sostenendo di aver semplicemente “eseguito gli ordini”.
Inviata a Gerusalemme dal settimanale americano New Yorker, la scrittrice e filosofa ebrea Hannah Arendt, assistette a tutto il processo e da questa esperienza nacque uno dei suoi libri più noti, “La banalità del male”. La Arendt ravvisava in Eichmann una completa “assenza di pensiero”, cioè la mancanza di una dimensione interiore etica della coscienza. Un’assenza di pensiero che era anche assenza di responsabilità, ossia incapacità di elaborare il significato del proprio agire e dunque delle sue conseguenze.
Al riguardo scriveva: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.
La parte più complessa dell’Olocausto, dove si radica proprio l’orrore è dunque una “zona grigia”, la stessa che – sebbene in termini diversi – Primo Levi usa nel saggio “I salvati e i sommersi” per descrivere il lager: “Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il ‘noi’ perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno”.
Celebrare davvero la Memoria, dunque, significa trovare la forza di intraprendere un viaggio non convenzionale che attraversa non soltanto le pagine più oscure della nostra storia recente, ma anche e soprattutto gli anfratti più remoti dell’animo umano, i suoi limiti e le sue pericolose perdite di equilibrio.
Celebrare davvero la Memoria vuol dire radicare nelle giovani menti la convinzione che il primo passo del male risiede nella “non-scelta”: “La triste verità – scriveva ancora la Arendt – è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai a essere buone o cattive”.
La foto in apertura è una scena tratta dal film Schindler’s List di Steven Spielberg